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The act of killing. L'atto di uccidere

Terminata la proiezione del film la sala è precipitata in un silenzio assordante. Lo stomaco chiuso, una sensazione di fastidio e profonda consapevolezza sono state le mie immediate impressioni. Un documentario che nulla tralascia, che mostra luci ed ombre e indaga la psiche in modo chirurgico. Un film che diventa una perfetta scienza dell’impunità.


Indonesia 1965, un golpe rovescia il governo Sukarno e dà inizio al regime dittatoriale del generale Suharto.

L'atto di uccidere è un documentario del 2012 che tratta il genocidio di quasi due milioni di comunisti e dissidenti indonesiani durante il colpo di stato di Suharto. Il regista, Joshua Oppenheimer, tratta il tema dal punto di vista dei perpetuatori delle purghe anticomuniste, usando come protagonista Anwar Congo, membro dell’organizzazione paramilitare di estrema destra Pancasila Youth.

Ciò che colpisce del documentario è la normale quotidianità dei responsabili del massacro, elevati ad eroi nazionali e mai processati. Particolarmente inquietanti sono le lucide parole di Adi Zulkadry, compagno di Anwar Congo durante le purghe: “i crimini di guerra sono definiti dai vincitori; io sono un vincitore quindi posso darne la mia definizione”.


Oppenheimer chiede a Congo e ai suoi compagni di interpretare loro stessi in un film celebrativo scritto da loro, in modo da rivivere le torture ed esecuzioni di massa. I personaggi non sono timidi, raccontano e mostrano le uccisioni, le torture e gli interrogatori senza filtri. Dopotutto l’attuale partito al potere li considera eroi le cui azioni vanno celebrate. Congo simula con orgoglio le tecniche usate per uccidere, mostrando fieramente un metodo da lui inventato consistente nello strangolamento della vittima con un fil di ferro, in modo da evitare eccessive macchie di sangue sul pavimento. Il tono scientifico della sua descrizione è agghiacciante, così come agghiacciante è il balletto esorcizzante improvvisato da Congo sul suolo dove avvenivano le uccisioni.

Fonte: YouTube


Il regista spinge Congo e Herman Koto, la sua spalla, a calarsi nel ruolo di vittime; è proprio nel passaggio da carnefice a vittima che Congo subisce una trasformazione interiore straziante e palpabile.

Nel momento in cui si cala nei panni di una vittima durante un interrogatorio, Congo appare scosso. Riguardando la scena in televisione con i suoi nipoti ammette di aver pensato per la prima volta di poter comprendere cosa avevano vissuto le sue vittime. Oppenheimer gli ricorda che lui non potrà mai capire cosa hanno davvero provato le sue vittime, perché sta vivendo solo una finzione. In questo momento avviene la presa di coscienza dell’assassino.


È negli ultimi attimi del film che la consapevolezza degli orrori perpetrati prende vita, e si manifesta in conati di vomito intrisi di rimorso. La riaccesa coscienza è un piccola luce che si accende nell’abisso del negazionismo e dell’indifferenza nazionale. É un processo psicoanalitico attraverso il quale i personaggi provano a liberarsi del peso del rimorso, provano a trovare il perdono da parte delle loro stesse vittime.


In una delle tante scene surreali del film propagandistico di Congo, il fantasma di un comunista assassinato consegna una medaglia al perpetratore: gli aguzzini cercano di trovare una scusa, vogliono sentirsi dire dai comunisti che avevano ragione.


Il percorso interiore di Congo assume ancora più forza di fronte all’impassibilità di Zulkadry: se il primo scava nei suoi incubi notturni e prova ad umanizzare le figure delle vittime un tempo percepite come animali, il secondo non sembra provare alcun senso di colpa. Mentre il documentario finisce con lo sgomento di Congo, Zulkadry continua a definire la “licenza di uccidere” data dal governo come una valida giustificazione alle sue azioni; la consapevolezza con cui dice “abbiamo ucciso gente e non siamo stati puniti” mostra ancora una volta come la narrativa dei “vincenti” sia l’unica cosa che sembra contare.


Fonte: YouTube


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